LA FABBRICA DI CELLULOSA e la Villa Fabbricotti di Serra San Bruno, 1892-1928
di Brunello De Stefano Manno, Stefania Pisani
Prefazione
È consuetudine del lettore saltare la prefazione, o leggerla alla fine del libro solo nel caso l'argomento abbia suscitato un minimo d'interesse. Faccio mia la tesi che fu di Cesco Tomaselli e pertanto mi auguro che i ragazzi ai quali ho dedicata la ricerca leggano questa mia dopo esser si appassionati all'argomento.
Parlare di "scoperta" a soli ottant'anni dalla chiusura di una fabbrica che è stata famosa sembrerebbe eccessivo. Ma, per quanto la sua attività si sia protratta per oltre trentacinque anni e malgrado sia stata celebre per l'avanzata tecnologia, la Fabbrica di Cellulosa e Carta di Serra San Bruno è stata dimenticata da tutti, persino dagli stessi abitanti del paese che l'ha vista nascere e prosperare. Rarissimi, si contano sulle dita di una mano, sono i serresi che ne hanno sentito parlare e, in ogni caso, nessuno di loro oggi saprebbe dire cosa in realtà producesse e con quali tecnologie. La fabbrica ha rischiato di seguire la sorte toccata in passato alle limitrofe ferriere di Mongiana: è stata dimenticata a torto, nonostante i suoi incontestabili primati e a dispetto delle superstiti vestigia.
Dal1979, ossia da quando in tandem con Gennaro Matacena ho ricostruito l'intera vicenda delle ferriere di Mongiana, la Calabria si è riappropriata di un anello ormai dimenticato della propria storia. Questo libro, inteso quale naturale prosecuzione della vicenda di Mongiana, vuole essere un ulteriore contributo alla conoscenza della storia produttiva della regione.
A Serra San Bruno sorse il primo in ordine cronologico, e il più avanzato in termini tecnologici, degli stabilimenti italiani produttori di cellulosa. Sembrerebbe cosa da poco e invece, anche alla luce dei recenti problemi d'approvvigionamento energetico, la vicenda della fabbrica dimostra come entro certi limiti sia possibile affrontare i problemi. Oltre ad essere stata la prima in un settore di produzione di cui ai suoi tempi l'Italia era sprovvista, la fabbrica detiene un secondo primato, forse più rilevante del precedente, perché con cento anni d'anticipo è stata antesignana degli odierni impianti di produzione d'energia da biomasse.
Il merito va ascritto ai Fabbricotti, famiglia toscana che è per due secoli è stata sinonimo d'industria. In Toscana sono note le vicende e sono ben conosciute le Ville, dimore dei Fabbri cotti. C'era una Villa Fabbricarti anche a Serra San Bruno e c'è stato un tempo in cui alcuni autorevoli membri della famiglia hanno vissuto in Calabria. Ho avuto la dabbenaggine di affermarlo a Firenze, Livorno e Carrara, e un perplesso studioso fiorentino mi ha considerato persona alquanto bislacca. Molto più aggressivi, diretti e senza tanti peli sulla lingua, alcuni studenti livornesi mi hanno dato, tout-court, del rimbambito, mentre un'anziana coppia di premurosi carraresi mi ha suggerito di consultare d'urgenza uno specialista in disturbi neurovegetativi.
Con viva sollecitudine, la gentile signora mi ha invitato a calzare un cappello di paglia a difesa dei colpi di sole che, a suo giudizio, aveva già cotto e svaporato il mio cervello. Confesso di non avere seguito il consiglio e, di conseguenza, chi nel testo dovesse rilevare qualche incongruenza sappia che posso accampare pronta ed incontrovertibile giustificazione.
Ai ragazzi sarà utile sapere che ognuna delle tre città toscane possiede una sua Villa Fabbri cotti. A Firenze ce n'è una, gestita oggi dal Comune, che ha uno splendido parco e custodisce notevoli testimonianze del passato; una lapide ricorda che ha ospitato Sua Maestà Britannica, la Regina Vittoria d'Inghilterra, la donna più importante dell'Ottocento, colei che ha plasmato un'intera epoca. La regina inglese, dopo essersi degnata scendere a Villa Palmieri, passò di volata nella lussuosa dimora e mostrò di preferire di gran lunga la raffinata ospitalità di Giuseppe, conte Fabbricotti . Costui è stato il finanziatore della fabbrica calabrese e, a Serra, su progetto dello stesso architetto curatore dell'allestimento delle ville toscane, si era fatto costruire un villino di stampo tirolese.
La Villa del Colombarotto, dimora livornese di Bernardo fratello di Giuseppe, con il suo vasto parco è oggi un polmone verde posto a ristoro della città. Bellissima, zeppa di statue e cimeli, è oggi sede del museo civico cittadino. Sul retro dell'edificio è esposto il busto di Amedeo Modigliani che ben conosceva la villa e il suo progettista, Vincenzo Micheli, di cui era stato allievo poco obbediente all'Accademia di Firenze. L'ultimo dei "pittori maledetti" europei conosceva altrettanto bene suo figlio Guglielmo, di cui era stato allievo, altrettanto disobbediente, alla scuola pittorica di via San Carlo a Livorno.
Non ultima, anche Carrara vanta la sua ed i carraresi ci tengono a precisare che l'unica, autentica Villa Fabbricarti dovrebbe essere considerata quella della loro città. Con malcelato orgoglio, vi inviteranno a visitare il parco all'inglese della Villa alla Padula e vi ricorderanno che la famiglia era d'origine apuana, dunque, della loro zona. Vi diranno anche che, nell'arco di due secoli, tra Settecento e Novecento, dalla iniziale attività di capicava, i Fabbricotti erano riusciti ad imporre il pieno dominio sul commercio mondiale del marmo. Un affaruccio niente male.
Lo ripeto a favore dei ragazzi calabresi e meridionali in genere: se vi azzardate a dire agli amici toscani che, nel suo piccolo, anche la Calabria vantava una Villa Fabbricotti, progettata per giunta dallo stesso architetto Micheli, gli educati vi prenderanno per scimuniti, altrimenti. senza frapporre indugi, i maleducati vi manderanno a fare in... dagini sanitarie. Se, al contrario, vi saltasse lo schiribizzo di approfondire la questione con uno dei vecchi abitanti di Serra San Bruno, costui vi fornirà qualche vaga notizia, dopodiché, ve lo garantisco, inizierà a favoleggiare alla grande. Ebbene, secondo un acuto osservatore degli autoctoni costumi: «l'incontro con i serresi determinerebbe tre cose: se il serrese è uno solo, vi trovate al cospetto di un artista. Se sono due siete in presenza di una partita a carte e, infine, se i serresi sono tre è molto probabile che scoppi una rissa».
Metto le mani avanti e dichiaro immediatamente di discendere, con troppi difetti e ben poche virtù, da famiglie serresi ma, per ahimè ormai vetusta esperienza, devo ammettere che la paradossale boutade ha un suo fondamento, specie se le discussioni tra noi serresi vertono sulla conoscenza della storia del paese. Nessuno è qui disposto ad ammettere che possa esistere al mondo qualcuno con cognizioni superiori alle sue. È scritto nel nostro patrimonio generico. Lo dico non per spocchia, desiderio di ergermi a censore o perché interessato all'analisi della psicologia collettiva; non sono studioso del costume e mi guarderò bene dall'approfondire oltre la questione. I difetti, specie quelli degli altri, m'interessano poco, anche perché, per graziadiddio, di miei ne ho a sufficienza e, a detta dei miei numerosissimi detrattori, anche di più. Tra i miei, e qui mi riferisco al più veniale, c'è la testardaggine e, pertanto, ritengo di possedere i requisiti giusti per rientrare di diritto nel novero di coloro ai quali è attribuito il trito stereotipo regionale. Testardo, capatosta calabrese, mi sono sentito dire a Napoli, la città dove da piccolo avevo messo nuove radici. Ebbene si, capatosta, testardo, testardo e dei peggiori.
Per non farla tanto lunga, mi sono incaponito nella soluzione di un rompicapo, un rovello che mi ha accompagnato fin dai tempi dell'infanzia. La storia dei Fabbricotti e della loro fabbrica ha coinvolto in passato alcuni esponenti della mia famiglia. Da piccolo, ergo ignorante, non facevo caso alle storie raccontate dagli zii, le prendevo per favole e le favole non mi appassiona vano allora e continuano a non piacermi adesso. Della fabbrica e della favoleggiata Villa Fabbricotti ho già detto che ogni vecchio del paese vi darà una sua particolarissima versione, frutto più che altro di fantasia e, in qualche caso, di congenito etilismo. Di recente, grazie ad un primo e timido accenno, sull'argomento iniziano a dissolversi le nebbie. Purtroppo, con gli anni io sarò pur diventato meno ignorante ma, di sicuro, sono più rimbecillito di prima e, venuta a mancare la generazione degli zii, scomparsi tutti i testimoni diretti della vicenda, potrei essere incorso in qualche inesattezza. Me ne scuso in anticipo e mi auguro che altri studiosi, più attenti e scrupolosi di me, possano in futuro approfondire l'argomento e risultare più esaurienti.
Non ho mai avuto l'occasione e, soprattutto, la possibilità di narrare la vicenda fino al giorno del fortuito, e fortunato, incontro con Luciano Calabretta. È stato lui a fornirmi la chiave per la soluzione del rompicapo. Luciano, medico chirurgo serrese, schivo ed alieno da pubblicità, è una miniera d'oro, un instancabile collezionista di reperti e, a tempo perso, è un cultore di storia. Intendo dire Storia, quella documentata, non di storielle e favole metropolitane. Sempre che sia concesso chiamare metropoli la minuscola cittadina di Serra San Bruno.
A dispetto della boutade dell'osservatore degli autoctoni costumi, l'incontro con Luciano è stato atipico, non ha prodotto partite a carte e non ha determinato liti. Qualche bicchiere di micidiale cachaca brasiliana, lo ammetto, lo abbiamo bevuto, ma solo alla fine di qualche serata, a conclusione dei nostri arzigogoli mentali. Discutere con lui è stato pure divertente, Luciano ha la vena satirica dei calabresi di montagna. Nel suo caso la satira sovrintende alla cultura critica architettonica e io ricorderò per sempre un suo giudizio, da me ampiamente condiviso, relativo all'opera dell'architetto Francois Pichat, progettista della Certosa di Serra, un'opera nordica, del tutto avulsa e di netto contrasto con la tradizione architettonica locale. Insomma, a nostro unanime giudizio, l'opera del buon Pichat è una madornale "pichata", battuta che mi ha fatto scompisciare.
Questo saggio è frutto delle nostre serate, spero non risulti figlio dei nostri bicchieri e mi auguro che possa contribuire alla conoscenza di un episodio finora trascurato della storia calabrese e, perché no, italiana.
L'argomento è suddiviso in schede monografiche per lo più autosufficienti. La scelta della forma narrativa, vagamente umoristica, a volte ironica e denigratoria di fossilizzati miti nazionali, è un tentativo, se volete pedestre, messo in atto per evitare gli accenti paludati e soporiferi che la regola impone a siffatto genere di ricerche. Di norma i libri di Archeologia Industriale propongono un mix di storia economica, scientifica, tecnologica, produttiva, costruttiva e normativa. Avendone pregressa esperienza, ritengo che, laddove il tema può tener desta l'attenzione dei rari cultori, si rivela un efficace succedaneo dei narcotici ed induce mortale sonnolenza a chi non fosse preparato a gustare tale greve composto. Per questo, e per scrupolo di coscienza, ho sempre consigliato ai miei rari lettori di non porsi alla guida di autovetture o lavorare con attrezzi pericolosi dopo aver letto qualche pagina dei miei scritti.
I cultori, quelli di palato fine, troveranno nel testo qualche digressione in più del necessario, vascolarizzazioni che divergono dal tema principale. Me ne scuso in anticipo e li avverto che la presenza di ricordi personali sparsi qua e là nel testo mi sono serviti per sbrogliare in qualche modo la matassa. Nel proseguire la lettura, se avranno pazienza e se riusciranno a districarsi nei meandri del mio farraginoso scrivere, scopriranno che, grazie alla fabbrica di cellulosa di Serra San Bruno, la Calabria vanta un primato storico e tecnologico assoluto, grazie anche alle idee ed alla lungimiranza dei toscani Fabbricotti, un nome che sembra un destino.
Un'ultima annotazione: avevo già avviato il libro alla stampa quando ho conosciuto Stefania Pisani, come me d'origine serrese, ricercatrice che aveva iniziato a condurre autonome indagini sulla fabbrica. Fatto rarissimo tra ricercatori, il caso ha voluto che nessuno di noi due si sia risparmiato nel rivelare all'altro il punto d'arrivo delle proprie ricerche. Ho ritenuto opportuno proporle di unire gli sforzi, facendo confluire i reciproci risultati in un'unica pubblicazione e, bontà sua, lei ha accettato.
La Pisani, che al pari di me e come tutti i precedenti ricercatori aveva attinto le prime notizie da un vecchio articolo pubblicato da una rivista della tecnica industriale, è pervenuta alle mie stesse conclusioni, ma, al contrario di me e di tutti i precedenti "esperti", ha approfondito il tema con sistematica e, devo dire, maniacale precisione. I suoi filoni d'indagine, diversi ma complementari ai miei, sono utilissimi a storicizzare il fenomeno della fabbrica in questione. È riuscita a ricucire la vicenda societaria in ogni suo punto e, tra l'altro, è riuscita a ricostruire le vicende degli scontri tra i notabili del luogo e gli intrusi industriali esterni venuti a turbare i precedenti equilibri.
Le sue scoperte mi hanno consentito di colmare alcuni vuoti d'indagine. La ricerca condotta sulle trasformazioni societarie è esemplare e chiarisce l'influenza esercitata dalla fabbrica all'interno dei dibattiti parlamentari e delle leggi emanate a favore dell'industria.
È sua la scoperta del tentativo di produrre nitroglicerina in alternativa al declino della cellulosa nazionale, ed è sua anche la scoperta dell'inserimento della fabbrica tra le industrie belliche che supportarono lo sforzo nazionale nel corso della Prima guerra mondiale. A quell'epoca la fabbrica iniziò a produrre "farina da legno" che, come è noto agli esperti del settore, è uno stabilizzante delle polveri da sparo.
La sua analisi sulle ragioni del fallimento dell'impresa è da non perdere e, io credo, resterà imprescindibile caposaldo da cui partire per ulteriori approfondimenti sulle cause della mancata industrializzazione della Calabria.
Anche se nell'ambito delle ricerche storiche è difficile giungere a conclusioni definitive, tutto può essere rivisto in ottiche diverse, ritengo tuttavia che il suo lavoro sia esaustivo e poco resterà da scoprire a chi un domani volesse cimentarsi nella ricerca di nuovi dati.
Buona lettura
Brunello De Stefano Manno