Le reali ferriere ed officine di Mongiana
di Brunello De Stefano Manno
Premessa
Pubblicata per la prima volta nel marzo 1979 con viatico di Atanasio Mozzillo e prefazione di Gaetano Cingari[1] 1, ripubblicata in tiratura limitata nel giugno 2007[2], è questa la terza edizione della ricerca sulle ferriere di Mongiana, iniziata nel197 3 e condotta in tandem con Gennaro Matacena, il caparbio architetto che tra mille difficoltà e non minori pastoie burocratiche sta per portare a termine il restauro della Fabbrica d'Armi, lavoro iniziato, roba da non credere, più di un quarto di secolo fa. Impegnato su altri fronti, il mio ex coautore non ha potuto partecipare a codesta riscrittura, ma da lui non mi è mancato il conforto e, soprattutto, il sostegno scientifico. Avevamo sempre avuto intenzione di ripubblicare il nostro vecchio testo, magari aggiornato e arricchito da nuove scoperte, e per anni abbiamo disatteso le attese di chi ci stimolava a farlo.
Quanto, purtroppo da solo, ho riscritto, è frutto della vecchia ricerca, struttura e sostanza sono identiche e di nuovo c'è l'aggiornamento grafico, foto di nuovi reperti e, soprattutto, ulteriori notizie inerenti le armi costruite a Mongiana, frutto della scienza di Silvio Cimino, autorità indiscussa in materia di armi antiche, specie calabresi.
Prima di allora, intendo dire prima del1979, la storia delle ferriere era rimasta relegata nell' oblio e Mongiana era uno dei tanti nomi confinati tra le polverose carte degli archivi. Era stato citato solo da due insigni studiosi in occasione del Secondo Congresso Storico Calabrese e fatto oggetto di una tesi di laurea, peraltro non pubblicata. Nessun giornale, nessun ricercatore, giornalista o professore che fosse, lo aveva poi citato e su Mongiana era calato ancora una volta il silenzio. Oggi, invece, sembrerebbe che il tema sia tornato di moda: molti ne parlano, qualcuno ne scrive, qualcuno rispolvera vecchi lavori mai pubblicati. È probabile che molti "studiosi" di ultima generazione più che alla cultura siano interessati alla gestione delle attività, e soprattutto dei fondi, che, grazie al dinamismo dell'attuale Amministrazione guidata dal Sindaco Scopacasa, sembrerebbero in arrivo a supporto del museo delle attività siderurgiche calabresi. Per trenta anni, con il sostegno dei precedenti Sindaci, la Comunità Montana delle Serre, e per essa il Segretario Errigo, ha profuso fondi ed energie nel restauro, ed ora che questo volge al termine si sono scatenati gli appetiti di gente che per Mongiana ha finora fatto poco. Mi auguro che facciano di più per il futuro.
La necessità di penetrare a fondo la vicenda umana e produttiva della ferriera nacque dalla proposta, avanzata nel 1976 da Matacena al Comune di Mongiana, di restaurare la Fabbrica d'Armi salvandola dalla immanente rovina. Col tempo maturammo una presa di coscienza per problematiche più complesse delle disciplinari inerenti il ristretto ambito del restauro scientifico del complesso monumentale. Nel corso delle ricerche condotte tra i labirintici archivi napoletani e calabresi, ci rendemmo conto di quanto lontana fosse la memoria di quell'episodio persino tra gli stessi Mongianesi, ignari del fatto che il degrado in cui versava il loro paese era il prodotto dell'interruzione forzata delle attività siderurgiche che ne avevano determinato la lontana origine. All'epoca delle prime ricerche, la perdita di memoria, e quindi d'identità, era pressoché totale in una popolazione che, tra le prime in era industriale, era stata avviata sulla via dell' emigrazione. Ritenemmo allora di dover utilizzare l'occasione del restauro come strumento di stimolo per quanti si occupavano di problemi connessi al Mezzogiorno. Pertanto, la ricerca si sviluppò con la convinzione che fosse doveroso rimuovere dall'oblio una pagina trascurata della storia del lavoro meridionale.
Per avvalorare la veridicità della materia esposta, ci attenemmo allora, e mi atterrò ancora, a uno schema tradizionale, scientifico, confortato e molto spesso appesantito da note e appendici che, probabilmente, saranno gustate solo dagli specialisti del settore.
Di norma, le ricerche imperniate sulla riscoperta delle prime fasi dell'industrialesimo rientrano in quella disciplina, nota come Archeologia Industriale, nata in Inghilterra, paese dove sono state protette molte testimonianze pionieristiche legate ai cicli di produzione connessi all'uso elle macchine. Da molti decenni il Council for British Archaeology si preoccupa di rilevare, studiare, catalogare e restaurare lo speciale patrimonio di fabbriche e attrezzature sparse sul suo territorio.
In altre parti d'Europa la tutela di tale patrimonio è stata compromessa da carenza di sensibilità nei riguardi del fenomeno della nascita dell'industria. Salvo casi d'insediamenti industriali autoconservati, fossilizzati perché abbandonati in regioni ormai lontane dai poli di sviluppo, ogni traccia è andata perduta con velocità superiore a quella occorsa a cancellare testimonianze di civiltà archeologiche tradizionali. Nei luoghi in cui vi è stata continuità, là dove lo sviluppo non ha subito il trauma dell'arresto del ciclo produttivo, le vecchie fabbriche sono state fagocitate e sostituite da impianti sempre più nuovi e razionali.
Quando nel1973 avviammo la ricerca, un campo di indagine a lungo trascurato si apriva vergine promettendo emozioni di cui era ormai avara l'archeologia classica. Eppure, scoprire quanto distava appena pochi decenni appariva inspiegabile: ciò che si scopriva non andava riportato alla luce con scavi incerti. Ci potemmo persino illudere, io e Matacena, di essere novelli Evans alla scoperta di inesplorate tombe industriali mentre ci aggiravamo tra fornaci dirute, ruote idrauliche, presse e ingranaggi dimenticati in fabbriche spettrali e ormai silenti. Nell'esaltazione della logica del profitto, questi primi duecentocinquanta anni d'industrialesimo hanno continuamente cancellato il proprio passato, senza mai concedersi una pausa di riflessione. Fiera di sé, soprattutto all'inizio, l'era industriale ha ripetutamente sbandierato la propria supremazia su ogni altra epoca, finendo relegata in una sorta d'oblio storico, avulso da continuità con il passato, proiettata solo verso utopiche e ottimistiche visioni del futuro.
Se oggi vi è riflessione, questa non nasce da un nuovo ruolo dell'industria, che continua comunque a fornire beni di consumo all'interno di un sistema di profitti, né tanto meno deriva da un interesse improvviso e romanticheggiante verso momenti spontanei della storia, non contaminata dalla ufficialità della cultura, così come è avvenuto per il recupero della tradizione popolare e folcloristica. La riflessione s'imponeva, e s'impone ancora, come necessità. Essa serve a dare risposte alla crisi del depauperamento delle risorse e diventa esigenza nel momento in cui, cadute le illusioni fin qui cullate, ci troviamo impreparati a fronteggiare i momenti di crisi e recessione.
Soprattutto in Italia, paese trasformatore per eccellenza, dove maggiore dovrebbe essere l'attenzione per le risorse.
Da sempre il Mezzogiorno chiede di essere reinserito in quell'economia di tipo avanzato, e comunque certamente non retrogrado, che ha avuto in tempi nemmeno tanto lontani dall'oggi.
Il Sud è particolarmente adatto al confronto tra passato e futuro perché conserva numerose testimonianze del proprio passato industriale. Il Nord ha perduto molto del suo patrimonio pionieristico, avendo conosciuto quella continuità produttiva che ha messo in moto il continuo rinnovamento degli apparati produttivi. Nel Sud, decapitato senza eccessivi ripensamenti dopo l'Unità, il cospicuo patrimonio industriale, sempre diminuito a torto dalle storie "ufficiali", andò distrutto, gli stabilimenti non ebbero l'opportunità di rinnovarsi e le rovine di quegli stabilimenti sono oggi oggetto di studio e di recupero.
Le Ferriere e Officine di Mongiana, episodio sconosciuto ai più, noto finora a pochi cultori di cose calabresi, testimoniano un'altra esaltante impresa industriale meridionale. A buon diritto, si affiancano alle ormai famose Seterie di San Leucio, alla Manifattura d'Armi di Torre Annunziata, ai Cantieri navali di Castellammare di Stabia, alle Officine Ferroviarie di Pietrarsa e ad altre meno note di Campania, Calabria, Puglie e Sicilia.
Il nostro precedente lavoro voleva essere un primo apporto allo studio di un episodio che avrebbe meritato ulteriori approfondimenti da parte di altri ricercatori. In questi trenta anni, eccezion fatta per il contributo di Michele Furci[3], poco o nulla di valido si è visto, nulla di nuovo è stato scoperto su Mongiana e sul contesto in cui la ferriera si trovò inserita. In precedenza, invece, due benemeriti studiosi avevano sviluppato due ricerche sulla ferriera, di cui una limitata a un anno cruciale della sua intera vicenda. Base delle ricerche, e base del nostro iniziale lavoro, era stato il carteggio, riordinato dal prof. L. Lume, depositato presso l'Archivio di Stato di Catanzaro, ma mai consultato in modo organico. Un solo storico di razza, Gaetano Cingari, alla cui memoria vanno ancora i ringraziamenti per aver confortato l'iniziale pellegrinaggio tra gli archivi napoletani e calabresi, da quelle carte aveva tratto un saggio monografico relativo alla crisi determinatasi a Mongiana nel1860 con il passaggio dall'amministrazione borbonica a quella sabauda.
Dal1979, come già detto, non si sono registrati contributi di rilievo, molti interrogativi sono rimasti senza risposta e la speranza che l'argomento inducesse qualche serio approfondimento da parte di molti ricercatori è andata delusa. Lo stesso decennale restauro della Fabbrica d'Armi è proseguito a singhiozzo, tra continue difficoltà, in eterna penuria di fondi e in totale incertezza sulla destinazione d'uso dei locali riattati. La nostra idea di farne un museo delle antiche attività industriali della Calabria è rimasta a lungo allo stadio di pia chimera. Nel 2007 però l'amministrazione comunale ha deliberato a favore della destinazione a uso museo delle attività metallurgiche e ha avviato l'iter per concretizzare l'allestimento. La nostra precedente pubblicazione, data per altro alle stampe senza alcun contributo finanziario esterno, registrò un buon successo tra i cultori della materia e, soprattutto, tra i Mongianesi e i Serresi ai quali non parve vero conoscere la storia di quello stabilimento di cui avevano sentito solo favoleggiare.
Molti concetti espressi nell'edizione dell979, ad esempio quello delle ferriere itineranti, sono diventati patrimonio comune e condiviso. La Ferdinandea, creduta un tempo una sorta di cittadella costruita per ozio e svago dei Borbone, è finalmente nota per quello che effettivamente era, cioè una ferriera succursale di Mongiana, baricentrica tra questa e le miniere di Pazzano. I Mongianesi, i Serresi, e con essi tutti i Calabresi, si riappropriarono di un episodio fondamentale del proprio passato. Molti emigrati, di temporaneo ritorno in paese, ne gustarono la storia e, orgogliosi, regalarono il nostro libro agli amici. Per anni abbiamo ricevuto richieste di ristampa: la prima edizione, di circa5000 copie, andò esaurita in brevissimo tempo e la seconda ha seguito di recente la medesima sorte. Aggiornata alla luce di successive indagini, arricchita da informazioni ricevute direttamente da Silvio Cimmino, indiscussa autorità del settore delle armi antiche, propongo questa terza edizione. Come già nelle prime due, ho tentato di fornire un quadro esaustivo, dagli albori alla definitiva chiusura, e non solo sul piano storico, ma tentando di analizzare quei fattori che risultano fondamentali in una vicenda di questo tipo. Ho cercato di descrivere con parole semplici gli aspetti energetici, la continua ed affannosa corsa all'aggiornamento tecnologico, i complessi aspetti sociali, economici e architettonici. E, pur interessato prevalentemente all'aspetto architettonico, ho ritenuto giusto posporre la descrizione del sopravvissuto patrimonio edilizio facendola precedere dalla valutazione dei fattori che in definitiva l'avevano prodotta.
La materia è ancora una volta suddivisa in argomenti monografici connessi tra loro. Partendo dalla necessaria premessa storica, ho analizzato l'ambiente geomorfologico, il problema dell'approvvigionamento energetico e delle materie prime, l'aspetto delle trasformazioni subite dall' ambiente e quello della costruzione delle infrastrutture viarie. Di seguito ho analizzato le tecnologie di produzione, i prodotti e i problemi relativi alla condizione operaia. Infine, su tali basi, ho affrontato il capitolo dedicato all'architettura, ritenendolo solo il punto d'arrivo della ricerca.
In definitiva, ancora oggi, ritengo l'architettura un prodotto del decennale processo produttivo e, in tal senso, continuo a ritenere valide le posizioni espresse dall'architetto Matacena e da alcuni teorici dell'Archeologia Industriale che tendono a vedere il monumento industriale come qualcosa che ha prodotto, quale elemento attivo di una struttura economica, ma che al tempo stesso è il prodotto dell'ideologia che ne ha determinato le valenze architettoniche.
Brunello De Stefano Manno
[1] Cfr. B. DE STEFANO MANNNO, G. MATACENA, Le Reali Ferriere ed Officine di Mongiana, Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli 1979.
[2] Cfr. B. DE STEFANO MANNO, Le Reali Ferriere ed Officine di Mongiana, K. lnk, Serra San Bruno 2007.
[3] Cfr. M. FURCI, I metallurgici di Calabria, Radici di un'antica attività da Mongiana a Vibo Valentia, Monteleone, Vibo Valentia 2004.
Le reali ferriere ed officine di Mongiana
di Brunello De Stefano Manno
Prefazione di Gaetano Cingari tratta dalla prima edizione (1979)
Qualcuno, anni fa parlò di un "ritorno dell'acciaio in Calabria". L'affermazione sorprese perché gli stessi Calabresi avevano perduto il ricordo storico di quella tessera del loro sistema produttivo pre-unitario. La vecchia generazione ricorda bensì la fiorente industria della seta, ma pochi, e soltanto nell'area interessata, le miniere e le fonderie di ferro. E la novità recò tanto più meraviglia per il fatto che non si richiamavano memorie di antichissime ferriere, quali erano frequenti in secoli di produzione disseminata e artigianale, ma miniere e altiforni, cioè un sistema di fabbrica e una produzione specializzata.
Quel richiamo, giornalisticamente efficace, era invero fuori misura se posto a raffronto con la rivoluzione tecnologica dei tempi nostri e con la conseguente domanda di produzioni semplificate.
Ma poneva un problema storico e spingeva a riflettere sull'eclissi, dopo l' unificazione nazionale, di un apparato produttivo calabrese, né ampio né sano, e tuttavia per quei tempi notevole e incidente.
Suonava, da un lato, come un lamento e, dall'altro come una sfida. E ciò valeva soprattutto come rivendicazione di attitudini tecniche e di fattori socialmente aggreganti spesso negati dagli odierni "viaggiatori".
Discorrendo di Gioia Tauro, si richiamava Mongiana e il complesso di attività intercorrenti tra il suo stabilimento siderurgico e l'area circostante, dal cuore dell'aspra montagna appenninica ai centri vicini (Serra, Pazzano, Stilo, Bivongi) e agli approdi jonici e tirrenici (Squillace, Monasterace, Siderno, Pizzo e Nicotera).
Mongiana! Un paese ora spopolato, un tempo luogo fervido di molteplici attività. Nemmeno allora la condizione dell'uomo era lieta e senza drammi. La fatica era dura, i fattori ambientali pesavano su tecnici e maestranze, minuscoli operatori che dalla ferriera traevano lavoro e sostentamento. Ma la vita, che del resto era molto dura altrove, anche fuori dalla Calabria e dal Regno borbonico, pulsava in molte direzioni, sicché dalla ferriera si irradiavano stimoli economici sociali e tecnici e, come era naturale, impulsi politici e culturali. Lo "statino" degli addetti alla ferriera nel marzo 1861 dà 762 unità, oltre a 250 carbonieri, 90 minatori, 100 armieri; 110 mulattieri e bovari,· e con essi tecnici e operai specializzati, dai capi officina ai macchinisti, ai forgiari, ai limatori; agli accieri; ai fornacieri; agli staffatori; ai ribattitori; ai raffinatori; ai magliettieri: un'occupazione di buona dimensione per quei tempi e talora di ottima capacità tecnica alla quale deve sommar si lo stuolo di artigiani; di piccoli commercianti; di manovali generici che vi era collegato nei mesi di più forte produzione.
Le fonti dicono che la miseria imperversava, che le categorie più numerose e meno qualificate protestavano ripetutamente per i bassi salari e per le dure condizioni di lavoro, e che lo scontento attingeva impiegati e tecnici. Non ci sono ragioni per dubitarne, e certo lo sfruttamento era grande.
Ma tutto ciò deve essere rapportato ai tempi e alla condizione operaia prevalente in industrie dello stesso tipo operanti anche fuori del Mezzogiorno. E in ogni caso, non deve essere sottaciuto il fatto che, nel cuore dell'Appennino calabrese, funzionava la più importante industria siderurgica borbonica, e per di più legata a materie prime locali. E che fosse statale, come quella meccanica e più robusta di Pietrarsa, è certo un fattore da considerare ave se ne intendano esaminare i costi e la produttività; e in questo caso si dovrà comunque inserirla nel complesso sistema economico borbonico e, in particolare, nel cosiddetto "protezionismo ferriero". Da questo lato tuttavia l'analisi è tutt'altro che agevole e nessuno aveva finora tentato di intraprenderla, così come ha fatto Giorgio Mori nel suo splendido lavoro sull'industria del ferro in Toscana[1].
Ma quando, perché e come nacque lo stabilimento di Mongiana?
È la domanda principale cui fa seguito, contestualmente, l'altra: quando, perché e come morì una industria di quella dimensione? Una tradizione "ferriera" esisteva in Calabria e se ne parla in memorie antiche come di attività precedenti la venuta dei Saraceni. Tommaso Campanella ricorda uno stabilimento nella sua Stilo, e il suo riferimento, e i molti altri che si ricavano da descrizioni, memorie e documenti d'archivio, confermano che il territorio attorno a Stilo costituiva la più ricca zona mineraria del Regno di Napoli e che in esso furono attivi; in secoli diversi numerose ferriere.
Si può ricordare, ad esempio, che alcune di esse (a Stilo e in zone non distanti; come Spadola) furono cedute da Carlo V a Cesare Fieramosca,· che nei primi due decenni del '600 esse avevano aumentato la produzione rispetto al secolo precedente, toccando i 1200 quintali nell618 con lavorazione di ferramenti per la marina e ferri speciali per usi civili: e che nei primi decenni del '700, nel periodo austriaco, quel governo imperiale mostrò molto impegno[2].
Queste ferriere non ebbero tutte una continuità produttiva. A metà '700 si ebbe un primo spostamento in zone più vicine alla città, nel cuore del bosco demaniale e la costruzione di una nuova ferriera lungo il corso del fiume Assi;- sicché il precedente gruppo fu chiamato le "Ferriere Vecchie" le quali corrispondono al complesso della Ferdinandea costituito dopo quello di Mongiana. Tali spostamenti possono essere spiegati soprattutto con la progressiva riduzione dell'area boschiva, attesa la grande quantità di combustibile richiesto dalla tipologia produttiva; e fu, in sostanza, per questo motivo che il loro amministratore Massimiliano Conty, propose al governo il progetto di una nuova ferriera[3].
Nasceva così un vero e proprio "distretto siderurgico" calabrese, comprendente Mongiana e Ferdinandea; e nel settore privato la ferriera di Razzona (Cardinale) costruita dai Filangieri col metodo "alla catalana" e capace, secondo il Grimaldi, di una produzione di circa 2.500 cantaia l'anno[4].
Oltre che sui boschi e i molti corsi d'acqua quel sistema metallurgico statale si fondava sui minerali di ferro della miniera di Pazzano ... (segue breve storia dello stabilimento n. d. a) .
... Non è qui il luogo di riconsiderare la politica economica borbonica e, nel contesto, la dura polemica tra liberisti e protezionisti che ne accompagnò lo sviluppo per molti decenni preunificazione. Si deve soltanto ricordare che il problema del ferro e del protezionismo che vincolava il settore fu al centro di quel dibattito, in un periodo in cui questi prodotti potevano essere importati in grandi quantità e di ottima qualità. Mongiana occupava un buon posto in quelle discussioni perché si trattava di industria statale e i !iberisti ne contestavano l'efficienza e la validità economica rispetto sia agli impegni finanziari dello Stato sia ai forti danni imposti al consumatore. Esisteva tuttavia un parallelo interesse dei produttori privati garantiti dalla tariffa protezionistica e, tra essi; in primo luogo il Principe di Satriano, Filangieri; proprietario della ferriera calabrese di Cardinale.
In quel contrasto, relativamente alla Mongiana, si discusse anche della qualità del prodotto, per taluni molto scadente, per altri di alto livello. Facendo la necessaria tara ai giudizi, si può dire che i prodotti di Mongiana, non tutti portati al possibile sviluppo e perfezionamento, erano mediamente buoni e che, comunque, non stava in quel punto il pomo della discordia. I pareri ufficiali, espressi da uomini come Cagnazzi Durini e Cantarelli erano ovviamente più lusinghieri ... È probabile che tali giudizi siano tratti da analoghe informazioni provenienti dai responsabili politici ed economici catanzaresi i quali a loro volta lavoravano su dati offerti dai dirigenti dello stabilimento. Ma in questa materia, allora come oggi occorre molta cautela. Se vanno dunque lette criticamente tutte queste relazioni ufficiali; lo stesso metro è bene usare nei confronti dei polemisti come il Rotondo e anche delle relazioni delle compagnie straniere, fortemente interessate al mercato napoletano per i loro prodotti.
L’altro tema discusso riguardava i costi di produzione che erano certo alti anche in dipendenza del tipo di localizzazione e di amministrazione. Nel periodo dopo il1815 fino al1860 si scaricò sullo stabilimento la doppia forbice delle scelte del potere centrale: se, per un verso, il governo lo tenne in piedi per le sue finalità (e anche per considerazioni politico sociali) per altro non ne fece che un' appendice, specie dopo la costruzione delle Officine di Pietrarsa, per la parte relativa alla produzione dei manufatti di ferro ...
.. . Ora, alla luce di questa situazione di fatto e in riferimento alle condizioni nuove, nazionali prodotte dall'unificazione trova una facile spiegazione la rapidissima fine di Mongiana. La nuova politica economica !iberista, la decisione nel suo ambito di alienare l'apparato industriale pubblico, le specifiche condizioni dello stabilimento calabrese sul terreno anche ubicazionale: queste e altre considerazioni conducono alla giustificazione logica di un processo inarrestabile, il quale, peraltro, aveva in sé le cause stesse della sua negativa conclusione. Forse la questione è più complessa, comunque meno lineare. Il dato di fatto stringente, in questa sede, è il modo stesso della decapitazione, in realtà si potrebbe dire, sommaria. Trascorrerà un quindicennio dall'epopea unitaria alla fine del capitolo siderurgico calabrese ... Ma la morte era cominciata appunto all'indomani dell'Unità. Un sistema protetto, che era nato e vissuto all'ombra dello Stato, non poteva reggere la lotta di mercato ... L’impatto fu dunque durissimo, al limite della "ferocia". Un capitale tecnico di esperienze fu cancellato di colpo, sebbene sia rimasta per molto tempo ancora l'abilità professionale dei "Serresi", e si innescò un meccanismo conflittuale tra le povere maestranze, la popolazione della zona e il potere centrale tanto aspro da produrre, tra l'altro, il ferimento di un direttore più risoluto ...
Posto dunque sulla scala del nuovo Stato (unitario), così come si veniva articolando, il problema presentava forti vincoli negativi per una soluzione di mantenimento e ammodernamento. Lo stesso problema, collocato su una scala regionale, tuttavia parimenti legittima, assumeva ben altro significato.
Nel conto, beninteso, si deve porre la tradizione storica negativa, ma anche il comportamento né limpido né socialmente attento del nuovo potere centrale. Del resto, anche altre iniziative industriali meridionali, ben più sane e più solide, se pur scamparono al primo grosso nodo dell'Unità raggiunta, talora perirono nei posteriori nodi di un mercato via via più nazionale e più stringente.
Il caso della Mongiana è, tra tutti il più emblematico. Esso illumina le debolezze interne dell'industria borbonica e, nel contempo, senza con questo ridiscutere il giudizio storico complessivamente positivo sul fatto dell' unificazione, ricorda comunque l'alto prezzo pagato da comunità che, pur coinvolte in un sistema politico chiuso, avevano espresso, tra l'altro, buone capacità sul terreno appunto del lavoro industriale.
Gaetano Cingari
[1] Cfr. G. MoRI, L'industria del ferro in Toscana dalla Restaurazione alla fine del Granducato (1815-1859 ), Einaudi, Torino 1966.
[2] Cfr. G. GALASSO, Economia e società nella Calabria del cinquecento, Uni-Nap, Napoli 1967.
[3] Cfr. U. CALDORA, Calabria napoleonica (1806-1815), Napoli 1960, ristampa Brenner, Cosenza 1987. Vedi pure: V. FALCONE, L’industria siderurgica in Calabria nel XIX secolo. La Mongiana, tesi di laurea, pp. 21-24. N.d.a.: in questo caso, fuorviato da errate testimonianze, il prof. G. Cingari confuse il ruolo avuto da Massimiliano Conty nella vicenda mongianese. A proporre il progetto era stato suo padre Giovanni Francesco Conty. Cfr. i capitoli Fondazione di Mongiana e Prime produzioni.
[4] Cfr. L. GRIMALDI, Studi statistici sull'industria agricola e manifatturiera della Calabria Ultra II.